
“È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé […] Sulla base del gioco viene costruita l’intera esistenza dell’uomo come esperienza.”
Forse dovremmo tornare tutti un po’ bambini per capire appieno la riflessione del pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott. Solo pochi hanno saputo conservare il dono del gioco, di quel momento magico in cui si impara divertendosi.
Sì, perché giocare non vuol dire “fare passare del tempo”, come molti lo intendono. Per i bambini, il gioco è un bisogno fondamentale, un’esigenza che, se soddisfatta in maniera adeguata ha la funzione di strutturare l’intera personalità di un individuo.
Il gioco è un mezzo per comunicare, rappresentare il mondo interno, drammatizzare la sofferenza e scaricare le tensioni.
Inoltre, l’attività ludica stimola le capacità di attenzione e i ragionamenti, struttura gli schemi percettivi e motori, attiva la memoria nonché le capacità di confronto e di relazione.
La psicoanalista inglese Anne Freud, figlia del più noto Sigmund, ha attribuito al gioco una funzione evolutiva. È attraverso di esso che il bambino sperimenta una sempre maggiore fiducia che lo rende autonomo e in grado di socializzare.
Il gioco, inoltre, è un indicatore dello stadio di sviluppo dei bambini.
I primi giochi sono definiti perlopiù auto-erotici, nel senso che, da 0 a 1 anni, il bambino gioca con il proprio corpo e con il corpo della madre. Si appropria anche degli oggetti circostanti, agitando le mani e le gambe.
Intorno ai 6/7 mesi, gli oggetti vengono battuti ripetutamente per sollecitare il mondo esterno, il quale viene animato in quanto percepito all’infuori da sé.
I cosiddetti oggetti transizionali compaiono intorno ai 6 mesi e, verso la fine del primo anno, il bambino ama spingere gli oggetti l’uno contro l’altro, infilare anelli su supporti verticali o costruire torri, svuotare e riempire contenitori, coprire e scoprire il volto della madre.
Lancia, poi, continuamente a terra degli oggetti per farseli poi restituire. Questo tipo di gioco serve al bambino per elaborare l’angoscia della separazione. Inizia a capire, infatti, che la madre non è un tutt’uno con il suo corpo e più si risponde a questa sua necessità di sperimentare il distacco fisico, assecondando il suo gioco con pazienza, prima si supererà questa fase. Un gioco da fare con i bambini, in questo caso, è quello del nascondino: nascondersi e ricomparire quasi subito dopo serve a fare capire ai piccoli che possiamo anche allontanarci dalla loro vista, ma ci siamo comunque e ricompariremo poco dopo.

È intorno ai 2 anni che inizieranno a giocare da soli e proveranno piacere nel farlo accanto ad altri bambini. Accanto, ma non insieme: per quello ci vorrà ancora del tempo.
A questa età amano, ad esempio, incastrare puzzle, impastare paste modellabili o costruire con i mattoncini.
A 3 anni, iniziano a giocare insieme ad altri bambini.
Inoltre, cominciano ad imitare gli adulti, sia negli atteggiamenti che con giochi di travestimenti.
A 4 – 5 anni, drammatizzano le dinamiche interne che stanno vivendo. Osservandoli giocare a nascondino o con una bambola oppure al gioco del dottore potremmo scoprire cosa stanno provando a livello interiore i nostri piccoli.
Dai 6 ai 10 anni in poi compaiono i giochi di gruppo comprensivi di regole, i quali servono al bambino per trovare un equilibrio tra i suoi bisogni e le regole della vita sociale.
Il bambino, quindi, si sviluppa e cresce attraverso il gioco. La partecipazione empatica dei genitori ai giochi del proprio figlio gli consente di trasformare le proprie emozioni negative e di imparare a gestirle autonomamente. Gli dà, inoltre, fiducia in se stesso e negli altri avendo verificato che è importante agli occhi del genitore e che su di lui può contare.
Sarebbe quindi un bene per noi stessi e per i nostri bambini se, anche noi adulti, riscoprissimo il gusto del gioco e lo praticassimo insieme ai nostri piccoli dai quali, in questo, non abbiamo che da (re)imparare!